INTRODUZIONE
I viaggi di Papa Giovanni
non sono mai stati fatti a caso. Non erano mai «passeggiate». Egli ha
riassunto, con semplicità e spontaneità, il carattere, dopo
secoli, meno storicamente evidente del Papa: quello di «pellegrino
apostolico». La definizione si era fermata a Pio VI, che Vincenzo Monti, in
un poema enfatico aveva celebrato appunto con quell'appellativo.
Papa
Giovanni è sempre stato un felice «pellegrino». Dovunque lo ha
portato l'obbedienza, è giunto con il cuore pieno di venerazione per
tutto ciò che di genuinamente umano e di profondamente religioso luoghi e
uomini avevano. In questo lo ha sempre soccorso la sua limpida fantasia, che ha
dato i colori più giusti e legittimi alla realtà di ogni giorno.
Egli vedeva nella prospettiva di spirito anche ciò che l'usura del tempo,
la gioia dei giorni uguali, impediscono ai più di vedere. E in questo ha
rinnovato sempre il suo profondo entusiasmo.
Se nessuna delle sue uscite
dal Vaticano fu casuale, tanto meno lo fu il pellegrinaggio a Loreto e Assisi,
il 4 ottobre 1962. Si era già sulla soglia del Concilio. Era giusto un
gesto di devozione, un atto profondamente religioso d'impetrazione di grazie
sulla grande assemblea che stava per aprirsi. Pregare si sarebbe potuto pregare
benissimo anche a Roma, sulla tomba di Pietro e di Paolo. Ma Papa Giovanni - che
aveva dichiarato scopo del Concilio presentare il volto della Chiesa «senza
macchia e senza ruga» - seppe dare anche un altro valore a quel
pellegrinaggio. Era un valore «ecumenico», in un certo senso; e
riguardava proprio l'Italia, la storia italiana di molti secoli contraddittori,
polemici, spesso sanguinosamente guerreggiati fra Stato e Chiesa.
Loreto ed
Assisi erano nei confini tradizionali dello Stato Pontificio. Umbria e Marche
avevano fatto parte, con alternanze disastrose, delle terre sulle quali il Papa
era sovrano, oltre che padre e pastore. La storia aveva dimostrato che erano
sempre rimaste fra le zone più anticlericali d'Italia. Nemmeno a un
secolo di distanza - dal 1870 al 1960 - pur essendo cambiate in meglio molte
cose - le radici di quell'anticlericalismo potevano dirsi distrutte.
L'anticlericalismo è un fenomeno soprattutto sentimentale, in Italia, e
nulla quanto i sentimenti alimentati dall'ignoranza e dalla deformazione
politica di fenomeni religiosi, sono duri a scomparire. Chi scrive ha constatato
che tutt'oggi, sulle colline pistoiesi, certi vecchi irriducibili anticlericali
bestemmiano non tanto Dio e la Madonna, quanto Pio IX: proprio come se - dopo un
secolo - fosse tuttora il Papa regnante, il Papa che, secondo loro, ha
ostacolato l'unità d'Italia e scomunicato il Risorgimento.
La
notizia del pellegrinaggio giunse improvvisa, e non mancò di sconcertare
molta gente. Una cosa era andare fuori Roma, ma in un raggio di pochi
chilometri. Quel viaggio era veramente la fine, consapevole e calcolata, della
lunga, volontaria clausura politica dei Papi. Chi ne percepì
immediatamente la straordinaria portata, e il significato religioso ed umano
più immediato, fu soprattutto la gente del popolo, che si accinse a
salutare il Papa da tutte le stazioni dove sarebbe transitato il treno col
Pontefice. Anche la scelta del treno non può non avere, in questa
prospettiva, un significato preciso nei confronti del passato. Erano novant'anni
che un treno non usciva dal Vaticano. La mattina del 4 ottobre ne sarebbe
finalmente uscito uno: per dire definitivamente addio a un'epoca che con quel
viaggio veniva chiusa, mentre se ne apriva una del tutto diversa. A disposizione
del Papa fu messo il «treno presidenziale» del Capo della Repubblica
Italiana. Antonio Segni aveva pensato a quel gesto di cortesia appena saputo
dell'intenzione del pellegrinaggio di Papa Giovanni. Era l'Italia civile,
l'Italia cattolica e democratica, l'Italia laica e autonoma, che tornava a dare
la mano al successore di Pietro, in un momento in cui il Concilio stava per
porre in circolazione nel mondo intero tutto un nuovo spirito e un diverso
criterio circa i rapporti fra il mondo religioso e il mondo civile.
Panorama di Loreto
IL PAPA AL FINESTRINO
La documentazione fotografica, cinematografica e
televisiva di quel viaggio è uno dei più efficaci, dei più
eloquenti «segni dei tempi». Lascia intendere chiaramente che
dev'essere stato per il Papa uno dei momenti più belli e festosi del suo
pontificato. Benché notevoli disturbi lo affliggessero già e la
stanchezza non lo risparmiasse, poche altre volte sul suo volto si è
fatta luminosa e evidente la gioia della paternità. Gli era sempre
piaciuto viaggiare. Aveva sempre avuto - come tutti i figli della terra - una
spontanea curiosità per uomini, cose, paesi, costumi, bellezze naturali
ed artistiche. Ma mai, da Papa, gli sarebbe potuto capitare di leggere, su un
nastro ininterrotto e vivo di volti umani per chilometri e chilometri la
commozione, la gratitudine.
Quel viso sorridente al finestrino, quelle
braccia appoggiate al bordo del vetro, quelle mani benedicenti, contro il nastro
vivo e acclamante di migliaia e migliaia di creature entusiaste, dà molto
bene la misura di ciò che realmente è stato il
pellegrinaggio.
Il percorso del treno divenne una lunga sola strada
trionfale. Con prontezza febbrile, tutti si dettero da fare perché il
Papa vedesse, anche dai segni esteriori, la gioia che il suo passaggio portava.
Le finestre si ornarono di fiori e di festoni, costituiti quasi sempre dalle
coperte migliori della casa. Tutti volevano che fin dove gli occhi di Papa
Giovanni avessero potuto giungere, vedessero che tutti rispondevano, che nessuno
era insensibile al suo passaggio.
Una missione del Governo italiano con il
presidente del Consiglio, Fanfani, accompagnava il Papa sul treno, in veste di
ministro degli Interni, per scortare e onorare il grande ospite dell'Italia; e
il presidente Segni era ad attendere il Pontefice a Loreto, per ringraziarlo
dell'onore che l'Italia stava ricevendo per quella dimostrazione di stima e di
amicizia. Dovette farne, di acrobazie, il presidente Segni, quel giorno, per
rompere la folla che s'addensava da ogni parte e che minacciava di impedirgli di
giungere a tempo a dare il saluto all'ospite. Ma tutti ricordano il tono che
subito assunse l'avvenimento: un tono domestico, amichevole, popolare pure nella
sua estemporanea solennità. Era un festa. Una festa di famiglia, una
festa di figli attorno al padre; una festa in cui nessuno cercava, quel giorno,
d'essere più importante dell'altro. Tutti semmai, cercavano solo d'essere
più fortunati, cioè di potersi trovare in punti strategici da cui
o vedere in primo piano il Papa o toccarlo. Fu solo questa la gara che quel
giorno una folla immensa dimostrò di voler fare. Il Papa non era
più un'immagine ed una presenza sigillate fra le mura solenni del
Vaticano: era una immagine viva e tangibile, spontaneamente presente sulle
strade di tutti, una presenza a cui si poteva gridare un saluto dalle finestre
di casa propria e riceverne un gesto di simpatia o una benedizione.
È
stato detto, quel giorno, che Papa Giovanni, senza spendere troppe parole, ha
trovato il modo, col suo pellegrinaggio, di rendere noto ai cattolici italiani
che c'era il Concilio, che era vicino, che era importante, che si sarebbe aperto
dopo pochi giorni. Era, tutto sommato una «pubblicità» quanto
mai opportuna. L'Italia, per quattro anni - come hanno documentato inchieste
ineccepibili - è rimasto il paese più estraneo ed insensibile al
Concilio, in proporzione alla propria vicinanza a Roma e all'informazione
più o meno diretta che poteva averne. Papa Giovanni, con il viaggio del 4
ottobre, fece tutto quello che era possibile fare, anche in questo senso,
proprio mentre compiva un gesto di devozione e trovava il modo d'incontrare
nelle loro città innumerevoli folle di figli.
Durante il viaggio
stette quasi sempre al finestrino. Come avrebbe potuto negarsi ad un sorriso e
ad un saluto, se dovunque passava la gente aveva invaso le stazioni, il recinto
della ferrovia, assiepandosi fin sulle rotaie? Era un'immagine talmente inedita
ed inconsueta, che si poteva pensare di non doverla vedere più. Ed invece
non si trattava che della premessa ad una sempre più naturale e vasta
libertà del Papa di fronte al mondo. Quella felice corsa in due luoghi
sacri e celebri in tutto il mondo, era la giustificazione a tutti i viaggi
«ecumenici» del successore che sarebbe presto giunto in Terra Santa,
in India e in America. Dovunque, in futuro, un Papa giungerà, padre tra i
figli, ciò sarà naturale sempre di più; non ci dovrà
essere nemmeno più clamore di stampa e di fotografi: dovrebbe tornare ad
essere tutto come ai tempi degli Apostoli, quando il compito di visitare le
Chiese faceva parte dell'autorità e del «servizio» evangelico
del «servo dei servi di Dio». E tutto questo sarà possibile
perché, nell'ottobre del 1962, Papa Giovanni - questo lettore e
indicatore sagace di tutti i «segni dei tempi» - ha sentito che era
maturato il momento in cui il Papa doveva uscire dal Vaticano con la stessa
naturalezza e semplicità con cui un padre esce di casa e si reca a
visitare i figli, dovunque essi siano.
A Loreto, nella basilica straripante
e sulla piazza dove il clamore degli applausi non accennava a finire, Papa
Giovanni rievocò subito il proprio pellegrinaggio di sessantadue anni
prima: «L'atto di venerazione alla Madonna di Loreto che compiamo oggi, ci
riporta col pensiero a sessantadue anni fa, quando venimmo qui per la prima
volta, di ritorno da Roma, dopo aver acquistato le indulgenze del Giubileo
indetto da Papa Leone. Era il 20 settembre del 1900. Alle due ore del
pomeriggio, ricevuta la santa Comunione, potemmo effondere la nostra anima in
prolungata e commossa preghiera. Per un giovanetto seminarista cosa c'è
di più soave che intrattenersi con la cara madre celeste? Ma,
ahimè! le dolorose circostanze di quei tempi, che avevano diffuso
nell'aria una sottile vena canzonatoria verso tutto ciò che rappresentava
i valori dello spirito, della religione, della santa Chiesa, convertì in
amarezza quel pellegrinaggio, non appena ci accadde di ascoltare il
chiacchiericcio della piazza. Rammentiamo ancora le nostre parole di quel giorno
sul punto di riprendere il nostro viaggio di ritorno: "Madonna di Loreto, io vi
amo tanto e prometto di mantenermi fedele a voi, e buon figliolo seminarista. Ma
qui non mi vedrete più!". Vi tornammo invece altre volte, in seguito, a
lunga distanza di anni. Ed oggi eccoci qui, con la famiglia dei nostri
più cari collaboratori; eccoci accolti a gran festa da splendida corona
di anime elette: dal presidente delle Repubblica Italiana, dalla nobile missione
del Governo italiano e da rappresentanze, da farci ritenere che anche qui, in
questa eccezionale circostanza, la nota caratteristica che solleva ammirazione,
è quella della cattolicità e della
universalità».
Per Papa Giovanni, l'unione della folla, dopo le
tempeste anticlericali, era già il simbolo e il segno dell'unione che il
Concilio poneva come uno degli scopi di tutta la sua fatica e i traguardi della
sua speranza. Era vera la parola di Gesù: «Dove due o tre saranno
uniti nel mio nome io sarò con loro». Lì erano migliaia, le
anime devote ed entusiaste. E Papa Giovanni vi leggeva, con fiducia, un augurio
per il prossimo Concilio.
Prendeva atto, oltre tutto, della più
provvidenziale evoluzione dei tempi e degli amici. Certamente il seminarista
Roncalli, nel lontano 1900, non aveva scelto un giorno ideale per andare in
pellegrinaggio a Loreto: il 20 settembre era la festa più violentemente
massonica ed anticlericale d'Italia. Un prete in giro in quel giorno, non poteva
sperare di non raccogliere insulti, se non di peggio. A Loreto le cose non
andavano diversamente che altrove: dentro la grande basilica mariana, poche
vecchiette, e rarissimi gli uomini.
A Loreto, la gioia d'essere pellegrino
- davanti alla casa che la tradizione vuole portata prodigiosamente in volo da
Nazaret alla terra marchigiana - si fece parola di meditazione per tutto:
«Di fatto, tutti siamo pellegrini sulla terra, con una effusione di
preghiera sulle labbra che pur nelle sue molteplici espressioni, è comune
a tutti: andiamo verso la patria! Lassù è la mèta
dell'incedere quotidiano, l'anelito dei nostri sospiri: i cieli si aprono sulla
nostra testa, e il messaggio celeste rinnova il ricordo del prodigio per cui Dio
si è fatto uomo e l'uomo è diventato fratello del Figlio di
Dio».
Papa Giovanni XXIII sul treno che lo conduce a Loreto
L'INCONTRO FRA DUE POVERI
Ad Assisi, nel tardo pomeriggio dello stesso
giorno, si rinnovarono lo stesso entusiasmo e la stessa tenerezza che a
Loreto.
Dai vicoli antichi, dalla campagna, dai grandi conventi rosei e
grigi sbocciati lungo i secoli dal fiorire della pietra ardente del Subasio,
uscirono migliaia e migliaia di uomini, donne, preti, frati, monache, religiosi
di ogni tipo e genere. Grappoli di teste facevano capolino dalle finestrelle
accese di gerani, da sopra gli archi delle antiche dimore, dai terrazzi delle
costruzioni più moderne. In quell'occasione ebbero il permesso di uscire
a vedere il Papa - sarebbe stata l'unica occasione della loro vita - anche
alcune religiose di stretta clausura. I tetti brulicavano di gente che aspettava
eccitata ma senza impazienza la grande visita.
Cinema, televisione,
radiocronisti, fotografi e giornalisti di ogni tipo sfidavano le leggi di
gravità, per articolare in pochissimo spazio gli attrezzi e gli strumenti
tecnici necessari ad affrontare l'impegno di trasmettere il grande avvenimento.
La Chiesa era finalmente in cammino, anche in senso fisico, era la «Chiesa
pellegrinante» sul serio, e nessuno, a rigor di termini, poteva ancora dire
che essa aveva «i piedi di piombo», magari credendo di farle un
elogio.
Il sole del tramonto baciava i bastioni rosa e grigi del massiccio
convento costruito da Frate Elia sulla cima del Colle dell'Inferno - da allora
ribattezzato Colle del Paradiso - e s'accendevano i riflettori per illuminare la
facciata e i fianchi della triplice basilica, quando l'automobile del Papa,
dalla stazione di Santa Maria degli Angeli, s'incamminò verso la tomba
del Poverello. Dopo una breve sosta davanti alla basilica dove l'Ordine
francescano era nato, essa imboccò i dolci tornanti che fra gli ulivi e
cipressi conducono alla grande basilica.
Un figlio spirituale di san
Francesco - un terziario francescano - tornava ora a venerare le ceneri del
Padre; e vi tornava in veste di padre universale, come Papa; cioè come
uomo a cui Francesco, sette secoli e mezzo prima aveva donato senza esitazione
tutto il proprio amore e la creatura a cui aveva dato vita - un Ordine
già allora numeroso e vivace - e tutti i sogni che aveva osato sognare
per amore della Chiesa.
Il piccolo terziario francescano che aveva vissuto
fino a nove anni sentendo ritmare la vita della sua casa sul suono delle campane
di un umilissimo convento francescano, veniva ora a additare a tutti il mondo -
il mondo del benessere e del boom - la grande salvezza, la forza evangelica
della povertà accettata come virtù e come igiene dei rapporti
sociali.
Papa Giovanni si commosse ancora una volta, agli applausi della
folla, al suono di tutte le campane della città serafica, sotto i fiori
che la gente cercava di gettargli fin nell'automobile. Nell'obbedienza e nella
pace aveva sperato la sua «umile glorificazione» nei secoli, ed ecco
che anche sulla soglia della tomba di Francesco, quella gloria gli veniva
donata, quasi a confermare che solo i miti e gli uomini «possederanno la
terra».
Nell'ombra dorata della cripta, il Papa sostò in muta
preghiera davanti alla nuda urna di pietra, recinta di liste di ferro, che
racchiude i resti del Poverello. L'umiltà di san Francesco era durata
lunghissima, anche dal punto di vista storico e archeologico. Frate Elia, nel
1230, aveva chiuso in faccia le porte della basilica persino ai legati di
Gregorio IX, affinché nessuno venisse a sapere dove con precisione quel
corpo benedetto sarebbe andato a riposare. Fra massi enormi e calce viva, il
corpo del santo aveva dormito un lunghissimo sonno, fino al 1885, quando padre
Papini, con la collaborazione febbrile di insigni archeologi, era riuscito a
ubicare il luogo della sepoltura e a rintracciare l'urna di pietra con i pochi
resti del santo.
Questo, la sera del 4 ottobre 1962, era l'incontro fra due
poveri: due poveri che in èpoche lontane e diverse avevano in eguale
misura «arricchito» il mondo in cui erano stati chiamati a vivere.
Testimoni della povertà, tutti e due erano garanti di pace e di
fraternità; e tutti e due, nella libertà derivante da quella
povertà, erano stati capaci di persuadere il cuore degli uomini anche dei
più lontani, alla luce del Vangelo.
Papa Giovanni fece l'elogio di
san Francesco, che aveva saputo attuare l'autentico ben vivere: «È san
Francesco che ha compendiato in una sola parola il ben vivere, insegnandoci come
dobbiamo metterci in comunicazione con Dio e con i nostri simili. Questa parola
dà il nome a questo colle che incorona il sepolcro glorioso del
Poverello: Paradiso! Paradiso!».
Ricordandosi d'essere stato
già pellegrino a quell'altare il 4 ottobre 1953, come patriarca di
Venezia, e d'aver portato l'olio rituale perché in nome di Venezia
venisse alimentata la lampada perpetua che arde davanti all'altare del santo, il
Papa commentava: «Lampada della terra è Cristo. Rinnoviamo
misticamente il rito, qui, questa sera, sulla tomba di Francesco. Egli altro non
volle essere, se non una fedele immagine del divino Crocefisso, che diede il suo
sangue per illuminare il cammino dell'uomo, per nutrirlo per risanarlo. Nel nome
e per la virtù di Cristo, nostro Signore, sia pace ai popoli, alle
nazioni, alle famiglie; e dalla pace discenda per tutti la partecipazione alla
desiderata prosperità spirituale e materiale che diviene letizia d'animo
ed incoraggiamento verso un vivere più sereno e nobile».
Non
mancò di porre l'accento sulla «follia» di Francesco, dalla
quale era scaturita, per secoli una seconda giovinezza della Chiesa:
«Quarantaquattro furono gli anni della vita terrena di Francesco: la prima
parte, circa metà, fu occupata nella ricerca del bene, come è
comunemente concepito e senza venirne a capo, per un non so che di disgusto che
rendeva inquieto il figliolo di messer Bernardone. Ma l'altra parte della vita
fu data ad un'avventura che sembrò follia, ed era invece di una missione
e di una gloria imperiture. Questa missione e gloria ci ispirano un voto che
deponiamo qui per Assisi, per l'Italia, per tutte le nazioni».
Fu un
grido d'amore, che conclude il messaggio d'Assisi; un grido d'amore, un voto di
vita nuova: «O città santa di Assisi, tu sei rinomata in tutto il
mondo per il solo fatto di aver dato i natali al Poverello, al santo tuo tutto
serafico di ardore. Possa tu comprendere questo privilegio e offrire alle genti
lo spettacolo di una fedeltà alla tradizione cristiana che sia anche per
te motivo di vero e intramontabile onore. E tu, Italia diletta, alle cui sponde
venne a fermarsi la barca di Pietro, - e per questo motivo, primieramente, da
tutti i lidi, vengono a te, che sai accogliere con sommo rispetto e amore, le
genti dell'universo - possa tu custodire il testamento sacro, che ti impegna in
faccia al cielo e alla terra. O popoli tutti dell'antico e del nuovo mondo,
tutti dilettissimi al nostro cuore di Padre! Sappiate leggere nel libro di Dio
la comune missione di civiltà e di pace cui egli, in forme diverse, vi ha
predestinati e vi vuole applicati con larghezza di concezioni luminose e
pacifiche, verso nuove mète di grandezza spirituale».
UN NON CREDENTE LEGGE IL VANGELO
Chi può dire che cosa accadesse, nei cuori
di tanta gente, durante il grande entusiasmo di quel 4 ottobre?
È
difficile, forse impossibile sapere. Ma affinché la gioia di chi ama Papa
Giovanni sia più profonda, un cuore s'è aperto e ha confessato
l'«avventura» inattesa di cui si è trovato protagonista,
davanti alla propria anima, quello stesso giorno.
Uno dei narratori, dei
poeti, dei registi più famosi e discussi dei nostri giorni, un giovane
uscito da anni, con amarezza e violenza, dalla fede cattolica, era ad Assisi il
4 ottobre 1962, ospite di don Giovanni Rossi alla Pro Civitate Christiana.
Sentiva ribollire la città intera, in quel pomeriggio, ma proprio per
questo non osava uscire dalla stanza dove stava facendo un confuso soliloquio
con se stesso. Sapeva chi era Papa Giovanni, nutriva per lui simpatia e
ammirazione; ogni gesto di quel vecchio Papa inatteso era stato per lui, uomo di
sinistra, inquieto e incontentabile, un segno di speranza e di
fiducia.
Avrebbe voluto fargli festa anche lui. Ma non era il caso di
uscire, di entrare nel raggio dei riflettori e dei microfoni di far parte visiva
di una cronaca così sacra e innocente, della quale non si sentiva affatto
degno. E poi sarebbe stato sin troppo facile, per chi lo avesse visto lì,
in quel momento, pensare o dire che era una presenza calcolata, una
pubblicità a buon mercato. Tutti avrebbero avuto il diritto di dire che
anche Pier Paolo Pasolini s'era fatto trovare ad Assisi accanto a Papa Giovanni.
Era facile immaginare i commenti che ne sarebbero nati, sia a destra che a
sinistra.
Il regista non uscì dalla sua stanza. Continuò ad
ascoltare il brusio della folla, che non accennava a calmarsi.
Ma qualcosa,
lì, davanti a se stesso, era pur possibile fare, per rendere onore a
quell'uomo, così totalmente uomo così pienamente umano, come pochi
altri nel mondo dei nostri giorni.
Leggere il Vangelo. Ecco cos'era
possibile, cos'era degno di quella presenza nella città del Poverello.
Così Pasolini stese la mano al comodino e prese il Vangelo. Era
già sera, e la folla cominciava a diradarsi. Laggiù, amplificati
dalla valle, esplodevano, gli ultimi applausi della povera gente al Papa
pellegrino.
Pasolini cominciò a leggere. Era il Vangelo secondo
Matteo. Lesse a lungo, lentamente, con dentro, di pagina in pagina, il senso
sempre più vivo di riscoprire un «paese dell'anima» che
sembrava perduto per sempre. Ecco, era lì la «violenza» di
Cristo, la sua umanissima profeticità; era lì la sua pienezza
israelitica, di creatore del Regno da secoli e secoli sognato. Era lì la
sua ira celeste contro i ricchi, gli scribi, i farisei, i profanatori del
tempio. Matteo era un biografo duro, violento, implacabile; c'era in quella
pagina la protesta che Pasolini aveva da sempre sognato, senza riuscire a
crearla nelle proprie pagine.
Leggendo, egli vedeva la vita,
l'«avventura» di Cristo in immagini, non più soltanto in
parole. Lui che aveva cantato, in immagini, gli «accattoni», i
disperati, i rifiuti della terra, trovava ora la spiegazione del destino della
più calpestata umanità.
Non era certo la fede che stava
riaffacciandosi nella sua coscienza. Ma era il suo corrispettivo più
umano e disperato, il bisogno di rispondere dell'uomo, di assumerne la
sofferenza e l'inquietudine.
Perché non ne avrebbe tratto un film,
da quel tremendo Vangelo dell'ex esattore di tasse che era finito apostolo ed
evangelista col nome di Matteo? Dovevano passare due anni, da quel pomeriggio
del 4 ottobre, perché il frutto di quella lettura - durata sino alla
mattina dopo, senza scampo - trovasse una voce ed una fisionomia. Era nato
comunque uno dei pochi film religiosi della nostra època: Il Vangelo
secondo Matteo. E non a caso era stato dedicato «alla cara, familiare ombra
di Papa Giovanni».
Più tardi lo stesso Pasolini confessava a
chi scrive: «L'apparizione di Papa Giovanni nel nostro tempo è stato
l'unico elemento positivo contro il caos e l'involuzione a cui sembrano avviarsi
sia la cultura laica che quella cattolica. La grande novità di Roncalli,
secondo me, è stata non quella d'essere un buon Papa (sull'uomo quasi
angelico siamo tutti d'accordo): il dato più inatteso e profondo è
stato questo, che Papa Giovanni è stato il primo Papa che abbia vissuto,
accettato, intuitivamente - senza averla teorizzata nemmeno davanti a se stesso
- la cultura laica degli ultimi cento anni per quello che essa contiene di
liberante ed integrante anche per il pensiero cattolico. Per paradosso,
dirò che colui che ha promulgato la Pacem in terris ha dato la prova
più chiara di ciò che potrà sembrare a molti proprio un
paradosso, ma che per me è un traguardo inevitabile della Chiesa:
soltanto accettando il confronto con la cultura laica e con la democrazia, era
possibile un Papa come Giovanni XXIII. Per me è santo in questo senso. Mi
dispiace che debba essere canonizzato secondo la procedura canonica - anche se
non ho il diritto di interferire nei criteri della Chiesa. Ho addirittura
scritto - ma non pubblicato - una poesia che è un vero e proprio appello
perché Papa Giovanni non venga canonizzato. Canonizzandolo, egli dovrebbe
accettare il crisma dell'ufficialità, di cui ha sempre sorriso, anche se
ha sempre ubbidito. Un'altra grande novità di Papa Giovanni sta per me,
nel fatto che egli ha sempre saputo sorridere di se stesso. L'humor è una
valvola enorme. Solo l'uomo non colto - o colto male - non ha humor. Papa
Giovanni ha liberato se stesso, e ci ha tutti liberati, in qualche modo, dal
pericolo di prendere sul serio noi stessi. Ci ha restituito all'infanzia,
facendoci così veramente capaci di prendere sul serio la verità.
Per questo è nato il mio film sul Vangelo di Matteo, e solo per questo
è stato possibile. E solo a Papa Giovanni poteva essere
dedicato».
La Basilica di San Francesco ad Assisi
Il centro di Assisi
AI PIEDI DELLA «SANTA MONTAGNA»
Gli ultimi mesi del 1962 dettero a Papa Giovanni
la certezza che non gli restava più molto da vivere. Ma egli era sereno.
Per una specie di intuizione, sapeva che il Concilio lo avrebbe aperto,
impegnandovi tutta la Chiesa, chiedendo a ciascuno il massimo che potesse dare.
Non gl'importava morire, ora. Teneva il suo male più segreto che fosse
possibile. Cercava di sorridere a tutti, scherzava persino sul proprio stato di
salute, pur di tranquillizzare chi gli stava intorno.
Era giunto ai piedi
della «santa montagna», com'egli chiamava il Concilio, e non si
rammaricava se la volontà di Dio non gli consentiva di giungere sulla
cima. Ettore Masina così lo descriveva dopo averlo visto in quei mesi:
«Il male che minava il suo organismo era stato diagnosticato con certezza,
e il suo volto era smagrito, pieno di rughe e di ombra, anche se la voce
risuonava sempre forte e decisa. I medici gli vietarono di tenere la consueta
udienza generale del mercoledì. Egli decise che avrebbe benedetto a
mezzogiorno, dalla finestra del suo studio, i fedeli radunati in piazza san
Pietro.
Allora, pochi minuti prima delle dodici le porte della basilica si
spalancarono, uscirono come un fiotto purpureo i duemila vescovi che sedevano a
Concilio. Si mescolarono alla folla ed ecco, per la prima volta, essi non erano
più i grandi signori coperti di preziosi paramenti che i fedeli ammirano
da lontano nel fasto delle cattedrali e che la povera gente sente estranei,
lontani (Pour chanter Veni Creator - Il fout vestir une chausuble d'or...), ma
padri, uomini. E noi, i laici, non eravamo più i volti anonimi che essi
intravedevano dietro transenne e cordoni di polizia, ma sembianze precise,
giornalisti con i loro taccuini, tassisti col giubbone di pelle, studenti con il
carico dei libri. Nel gran freddo di quel giorno, ci guardavamo l'un l'altro, ci
scoprivamo. Poi gli occhi si volsero in alto, verso la figura bianca che
appariva dietro il davanzale ricoperto da un drappo che si agitava nel vento.
C'era una grande commozione tra la folla e bambini levati in alto dai genitori,
come se quegli uomini volessero benedire il Papa con ciò che di
più prezioso avevano. Fu in quel momento che capimmo tutti chi era
Giovanni XXIII: il Papa che aveva spinto i pastori fuori dal tepore dell'ovile
(chiese, palazzi) perché riscoprissero nel freddo, nel vento, l'anima
angosciata, l'anima piena di speranza della povera gente di cui Cristo ebbe
pietà».
Intanto si era fatto adattare un piccolo appartamento
in una delle torri superstiti della cinta leonina, la Torre di san Giovanni.
Amava il silenzio e il raccoglimento, e gli piaceva uscire dall'appartamento
consueto ogni volta che voleva più ascoltare la voce di Dio che
diffondere la propria. La sua norma ascetica non era mutata, come non era mutata
la sua certezza. Come non si riteneva «infallibile» nelle sue
personali responsabilità e decisioni, così sapeva bene che non si
può dare se non ciò che si attinge altrove.
Per prepararsi al
Concilio volle fare un ritiro proprio nella Torre di san Giovanni, dall'8 al 16
settembre 1962. Ritiro spirituale, unito ad esercizi pratici per il suo
ministero d'ogni giorno. Ecco le annotazioni del Giornate dell'Anima:
«Domenica 7 settembre: preparazione in Vaticano per il mio ritiro nella
Torre san Giovanni, dove intendo recarmi e rimanere per tutto questo seguito di
giorni. Sole persone ammesse: il cardinale Segretario di Stato, e ogni giorno
alle 11 il padre Ciappi, Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, a titolo di
esercitarmi con lui al parlar correttamente il latino, se ed in quanto possa
occorrermi durante le adunanze generali, presiedute da me nel Concilio; ed
egualmente ogni giorno dalle 16 alle 17 il rev.mo padre Cavagna, mio confessore
ordinario».
Là si rendeva conto ancora una volta, senza dubbi,
che il Concilio, ormai imminente, era volontà di Dio. Ed annotava questa
certezza, tranquillo e sereno definitivamente. Come «prima grazia»
stimava l'aver potuto accettare «con semplicità l'onore del
pontificato, con la gioia di poter dire di nulla aver fatto per provocarlo,
proprio nulla»; «seconda grazia» fargli apparire «come
semplici ed immediate di esecuzione alcune idee per nulla complesse, anzi
semplicissime, ma di vasta portata e responsabilità in faccia
all'avvenire e con immediato successo». Fra queste idee la più
importante e folgorante era stata senza dubbio quella del Concilio. E Papa
Giovanni precisa - siamo alle ultime righe del diario - che «senza averci
pensato prima, metter fuori in un primo colloquio col mio Segretario di Stato,
il 20 gennaio 1959, la parola di Concilio Ecumenico, di Sinodo diocesano e di
ricomposizione del Codice di Diritto Canonico, e contrariamente ad ogni mia
supposizione o immaginazione su questo punto».
Come il primo giorno,
era sorpreso e felice nello stesso tempo della grande decisione presa: «Il
primo ad essere sorpreso di questa mia proposta fui io stesso, senza che alcuno
mai me ne desse indicazione. E dire che tutto, poi, mi parve così
naturale nel suo immediato e continuato svolgimento. Dopo tre anni di
preparazione, laboriosa certo, ma anche felice e tranquilla, eccoci ormai alle
falde della santa montagna. Che il Signore ci sorregga a condurre tutto a buon
termine».
Come Mosè non vide la Terra Promessa, Papa Giovanni
non avrebbe visto la fine del Concilio. Ma il Vaticano II resterà il
Concilio di Giovanni XXIII.
Con questo nessuno può dire che al
Concilio egli stesso sia giunto con tutte le idee sufficientemente chiare, fin
nei particolari. A nessun Papa sarebbe stato possibile questo, se non avesse
avuto esperienze di Concili precedenti. Nell'impostazione della grande assemblea
della Chiesa, nemmeno Papa Giovanni poteva avere l'idea e il senso esatto di
come si sarebbero sviluppate le cose. Era certo che il Concilio era voluto da
Dio, era certo che rappresentava una grande ora di grazia sia per la Chiesa che
per il mondo; sapeva che a ciascuno, da lui stesso ai suoi più umili
collaboratori, sarebbe stato chiesto tutto il contributo di preghiera e di
lavoro possibile. Non altro.
Le commissioni e sottocommissioni preparatorie
lavorarono alacremente, per circa due anni, ma senza molti contatti reciproci,
quanti ne sarebbero occorsi per mettere a punto con chiarezza adeguata i
problemi veramente importanti. Sessanta schemi sarebbero stati molti, se non
troppi, anche per un Concilio della durata di diciotto anni come quello di
Trento. Ma chi poteva sapere e prevedere? Nessuno era in grado di offrire
confronti ed esperienze precedenti, e la sapienza, colta sui libri, raramente
conduce alla vera esperienza.
In questo senso, da un punto di vista
umilmente umano, anche il Concilio fu un'«avventura», come tutte le
risposte dell'uomo a Dio quando comportano un totale atto di fede ed insieme un
continuo atto di buona volontà. Oggi siamo in grado di giudicare che
quell'«avventura», nel cerchio della fede di tutta la Chiesa, era
proprio la condizione di tutta la libertà e di tutta la forza del grande
dibattito.
«Lampada della Chiesa è Cristo», aveva detto
Papa Giovanni ad Assisi, davanti alla tomba di san Francesco. Ma Francesco aveva
irradiato a sua volta, a tutti gli uomini del suo tempo, parte di
quell'inestinguibile luce.
Ora toccava proprio a lui all'«umile Papa
Giovanni» accendersi per accendere, nella verità della Chiesa, tutto
il mondo alla verità del Vangelo.
Anzi, non aveva nemmeno bisogno
d'accendersi. Sarebbe bastato che rivelasse - nel momento più solenne del
suo coraggioso magistero - la luce del suo cuore fedele.